ANNO XII - &MAGAZINE - 

Rivoluzione 4.0 e disoccupazione tecnologica: Bisogna preoccuparsi?

Rivoluzione 4.0 e disoccupazione tecnologica: Bisogna preoccuparsi?

Gli impatti di Industry 4.0 possono cambiare notevolmente non solo il sistema economico e produttivo e i modelli di business ma anche, e soprattutto, il lavoro.

Grazie agli ecosistemi digitali creati dall’Internet of Things (IoT – o internet delle cose) sarà possibile far comunicare tra loro oggetti fisici e persone, si potrà predisporre un’ottimizzazione costante del processo produttivo,

si creeranno, non solo Smart Factories (Fabbriche Intelligenti), ma anche Smart Cities, in cui l’ecosistema digitale si estende oltre la singola impresa, verso altre imprese, scuole, università, centri di ricerca, istituzioni e così via, fino a giungere al singolo consumatore, nella veste di prosumer.

Dato questo breve quadro, la domanda che sorge spontanea è: ci sarà ancora spazio per il lavoratore in quanto tale?

John Maynard Keynes, parlando di disoccupazione tecnologica, sosteneva che l’automazione avrebbe progressivamente – in pochi decenni – tolto l’uomo dal mercato del lavoro sostituendolo con macchine più efficienti. Uno dei motivi per cui quanto sostenuto da Keynes non è ancora avvenuto andrebbe rintracciato nel fatto che la sostituzione uomo-macchina porta a una maggiore efficienza dei processi e quindi a una riduzione dei prezzi di vendita: la conseguenza diretta è un aumento del reddito reale (al netto dell’inflazione) che permette l’aumento della domanda di beni e servizi, che va a generare quindi nuova domanda di lavoro, specialmente in nuovi settori, domanda che assorbirebbe i lavoratori resi ridondanti dalla tecnologia. Se la disoccupazione tecnologica era per ora solo una preoccupazione, molti iniziano a temere che da qui a poco si possa realizzare quanto predetto tempo fa da Keynes.

Le tecnologie digitali renderebbero possibile la progressiva sostituzione di una parte non marginale delle occupazioni, anche di livello superiore: si stima che il 47% dei lavori negli Stati Uniti, il 57% nell’area OCSE e il 77% in Cina sia suscettibile di automatizzazione nei prossimi decenni!

Carl Frey evidenzia che le precedenti rivoluzioni industriali hanno portato crescita economica e crescita della produttività, generando al contempo lavori meglio pagati, nuove mansioni e industrie. Per quanto riguarda la produttività, ritiene che con Industry 4.0 accadrà quanto accadde precedentemente, quindi un suo aumento, in particolare nel settore dei servizi. Per quanto riguarda la possibilità di stipendi più elevati e di nuove mansioni, invece, evidenzia che dall’introduzione dei computers lo stipendio mediano è rimasto stagnante, la quota lavoro su quella del capitale è calata, e la partecipazione alla forza lavoro è caduta fortemente, specialmente per alcune professioni: una spiegazione parziale a ciò è che i lavori che vengono automatizzati sono specialmente quelli a salario medio (servizi amministrativi, colletti bianchi, …), creando così un mercato del lavoro sempre più polarizzato. L’innalzamento del livello minimo di competenze richiesto, poi, ha spostato molti lavoratori con media professionalità verso mansioni a basso valore aggiunto, e quindi con un livello di reddito minore rispetto il precedente. Ciò è accompagnato dalla costatazione che negli ultimi anni vi è stata una deindustrializzazione delle economie del G20 – anche a causa dell’offshoring – con un conseguente calo degli occupati nel settore, e dall’evidenza che un numero sempre maggiore di posti di lavoro nei servizi verranno automatizzati.

Tutto questo ha portato quindi ad una “polarizzazione del lavoro”, ovvero al continuo aumento della domanda di lavoratori che si trovano alle due estremità dello spettro delle competenze. Diventa così relativamente più facile trovare lavoro per chi è poco qualificato ma svolge mansioni non routinarie – come quelle nel settore delle costruzioni, dei trasporti e delle manutenzioni ed installazioni – e per i lavoratori high-skilled – come i giuristi, architetti, designer e simili. Ma attenzione, secondo alcuni studi non per tutti gli high-skilled: nel paragrafo precedente ci siamo chiesti quanto le figure con compiti cognitivi e non routinari possano essere al sicuro dall’automazione, e Frey e Osborne elencano in quelle mansioni che saranno sostituite dalle macchine, non solo numerosi lavori manuali, ma anche profili tecnici dell’industria e dei servizi e alcune figure professionali superiori. Rifkin evidenzia come pochissime competenze professionali siano invero oramai al riparo dagli strumenti informatici e dai big data elaborati in algoritmi: «[le tecnologie 4.0] si avvia[no] a liquidare il lavoro salariato di massa nelle industrie manifatturiere e nei servizi, nonché il lavoro professionale retribuito in un’ampia area del settore del sapere». L’automazione quindi “aggredirebbe” anche le mansioni a più alto contenuto professionale.

Quanto detto, in un crescente «revival of automation anxiety», porta a molte domande, rendendo oggi più vivo che mai il dibattito sulle conseguenze dell’automazione del lavoro – dibattito che si pone nella scia dell’ormai secolare discussione che contrappone luddismo e innovazione: i posti che verranno “mangiati” dalle macchine saranno compensati da quelli che si verranno a creare? I lavoratori resi ridondanti dalla tecnologia verranno ricollocati? E se tutto questo non avverrà che politiche dovranno intraprendere gli Stati? E più in generale, che politiche si possono intraprendere a priori per evitare ciò?


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