ANNO XII - &MAGAZINE - 

Venti di recessione: austerity a livello globale.

Venti di recessione: austerity a livello globale.

Il 2% del PIL mondiale: circa 1.770 miliardi di $ in 3-5 anni. Questo è l’ammontare complessivo della stretta fiscale che il Fondo Monetario Internazionale (FMI) raccomanda per l’economia mondiale nel suo ultimo report di luglio al fine di riequilibrare i conti con l’estero.

Un suggerimento in linea con l’approccio standard del Fondo, ma che appare in prima battuta ignorare il delicato momento di simultaneo rallentamento della crescita in USA, Asia ed Europa e addirittura di recessione manifatturiera alle porte nell’Eurozona.

Una decisa austerity è la policy preferenziale che emerge infatti dall’analisi comparata delle raccomandazioni pubblicate dal FMI nell’External Sector Report per tutti i Paesi membri, che rappresentano il 90% del PIL mondiale. Il Fondo analizza le dinamiche dei conti con l’estero delle varie economie, cercando di identificare le policy fiscali, monetarie e le riforme strutturali necessarie a garantire un tendenziale equilibrio della bilancia dei pagamenti.

Tradizionalmente il FMI ha espresso raccomandazioni sullo stato della saldo delle partite correnti (che include esportazioni ed importazioni di merci/servizi ed i movimenti di capitali finanziari). In un mondo finanziariamente integrato tuttavia stanno assumendo sempre più rilevanza i flussi finanziari non direttamente riferibili allo scambio materiale di merci e servizi. Di conseguenza l’attenzione del FMI si sta gradualmente spostando sul monitoraggio di indicatori in grado di fornire un quadro più completo dello stato degli squilibri nei flussi di capitale, come la posizione internazionale finanziaria netta (Net International Investment Position – NIIP).

Questo importante indicatore misura la differenza tra crediti e debiti verso l’estero dei residenti di un determinato Paese; in genere la NIIP è considerata la misura più affidabile per capire se un’economia sia da considerare debitrice o creditrice netta nei confronti del resto del mondo.

Vale la pena dare uno sguardo d’insieme alle posizioni finanziarie nette delle principali economie mondiali a fine 2018. Con un discreto colpo d’occhio, è possibile identificare con immediatezza i principali Paesi debitori e creditori.

 

Si nota come la somma aggregata delle posizioni dei singoli Paesi in debito e credito sia ad un massimo storico di oltre 30.000 miliardi di $, un controvalore 3 volte più elevato rispetto al 2005. Gli USA sono il principale Paese debitore, con una NIIP superiore al 50% del PIL ed in crescita di 40 punti dal 2007.

Altri grandi economie debitrici sono l’Australia e la Spagna, mentre i principali creditori restano saldamente le grandi economie esportatrici di Giappone, Germania e Cina, con una crescita evidente del peso dell’economia tedesca nell’ultimo decennio. I Paesi esportatori di petrolio sono ovviamente creditori netti per via del reinvestimento dei proventi derivanti dalla vendita del greggio, ma la loro ascesa si è livellata dopo il 2014 per via della frenata del prezzo ben al di sotto degli 80$ al barile.

La crescita degli stock di crediti (debiti) va attribuita generalmente all’accumularsi di persistenti surplus (deficit) commerciali; per quanto riguarda gli USA il deterioramento della NIIP è stato esacerbato anche dal tendenziale apprezzamento del Dollaro che ha aggravato il valore reale dei debiti denominati in valuta. 

Malgrado un certo restringimento negli ultimi anni, permangono squilibri evidenti in alcune economie avanzate chiave. Ciò è particolarmente vero per il nord Europa (Germania, Paesi Bassi, Svezia) e alcune economie asiatiche (Corea, Singapore), dove gli squilibri tendono ad essere associati ad elevati e crescenti livelli di risparmio del settore corporate non finanziario, che fisiologicamente dovrebbe essere prenditore netto di fondi. Per quanto riguarda le posizioni debitorie, vi è una minore persistenza (tranne che per il Regno Unito e gli Stati Uniti, debitori storici). Improvvisi cambiamenti nei flussi di capitale e nelle condizioni di finanziamento del mercato a causa di crisi di fiducia nella tenuta dell’economia hanno imposto drastici aggiustamenti in economie emergenti come Argentina, Brasile, Indonesia e Turchia.

Il report FMI per ogni Paese membro si conclude con raccomandazioni di policy monetaria, fiscale e di riforme strutturali per il medio termine (3-5 anni). Se si abbandona il livello di dettaglio per singolo Paese e si guardano i dati insieme da una prospettiva globale emerge un quadro degno di commento. In tema di policy fiscale infatti, il FMI sta consigliando un consolidamento fiscale praticamente a tutti i Paesi del mondo, con le notabili eccezioni di Germania ed Olanda.

 

Generalmente il FMI raccomanda sempre una stretta di bilancio quando il saldo delle partite correnti è ritenuto in deficit eccessivo. Secondo il modello di valutazione del Fondo infatti, ad un 1% del PIL di inasprimento fiscale corrisponde mediamente un miglioramento della bilancia commerciale dello 0,3% per via della riduzione delle importazioni dall’estero. Tuttavia, nel report 2018 anche Paesi che hanno una situazione di generale equilibrio dei conti con l’estero (come Italia, Cina, Giappone e Brasile) vengono indirizzati su un percorso di austerity nel medio termine. L'Italia dovrebbe passare dall'attuale 2% di deficit ad un surplus di bilancio (dopo il pagamento degli interessi) del +0,5%, varando manovre restrittive per 42 miliardi di €.

Le ragioni sono molteplici: secondo il FMI in Cina la tendenza ad una crescita del deficit delle partite correnti a causa di politiche fiscali e di stimolo al credito troppo espansive è mascherata dall’impatto negativo di una rete di welfare debole, che riduce la propensione al consumo della classe media. In Giappone sono i bassi investimenti che compensano una politica fiscale eccessivamente lasca; in Italia e Brasile la crescita zero dei prestiti bancari tiene l’economia in stagnazione ed impedisce paradossalmente che i conti con l’estero peggiorino, nonostante i deficit di bilancio ritenuti elevati ed evidenti problemi di competitività dei sistemi manifatturieri.

In media anche l'Eurozona nel suo complesso dovrebbe stringere di più la cinghia con uno 0,5% di PIL in aumenti di tasse o tagli della spesa pubblica.

Secondo le stime FMI, un taglio coordinato degli stimoli fiscali nelle principali economie indurrebbe sì uno shock deflattivo esteso, ma paradossalmente migliorerebbe gli squilibri con l’estero: ad esempio in Cina il taglio di 3 punti di PIL al budget governativo causerebbe una riduzione delle importazioni dall’estero per distruzione della domanda interna, che però verrebbe più che compensata dalla riduzione delle esportazioni verso altri Paesi come USA e Giappone, impegnati anch’essi in politiche di austerity.

In sostanza, è evidente l’enfasi del Fondo verso politiche fiscali prudenziali, che però appare non aggiornata con il quadro macroeconomico globale che sta emergendo nelle ultime settimane: la ripresa sperata per la seconda metà del 2019 sembra allontanarsi, mentre peggiorano sensibilmente gli indicatori sull’attività manifatturiera nelle principali economie esportatrici. Inoltre, non si può fare a meno di evidenziare che questa austerity globale cozza con la prospettiva attuale di una rapida discesa dei tassi di interesse nelle principali aree valutarie - anche a livelli fortemente negativi – e di una loro persistenza a livelli bassi per un periodo lungo.

Come ha evidenziato correttamente l’ex capo economista FMI Blanchard, in un contesto dove i tassi di interesse sono previsti a lungo termine intorno allo 0%, la politica monetaria ha degli spazi di manovra molto limitati e la politica fiscale deve essere a supporto della crescita economica. Soprattutto se il costoopportunità connesso all’emissione di nuovo debito – anche per economie fortemente indebitate – si riduce notevolmente.

Naturalmente le risorse raccolte dovrebbero essere destinate obbligatoriamente ad una robusta ripresa degli investimenti in infrastrutture e beni capitali; un fattore di riequilibrio che possa favorire la ripresa della domanda interna e che continua a mancare proprio nei Paesi a forte vocazione manifatturiera (Italia, Germania o Giappone), dove gli investimenti stagnano da troppi anni. Stavolta non deve essere l’austerity la risposta alla crisi.

Marcello Minenna, Economista
@MarcelloMinenna

 


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