Tutto pronto per abolire la legge Merlin? Qualche giudice illuminato dice sì, ora spetta alla Corte Costituzionale
Nell’ultima campagna elettorale abbiamo assistito a una serie di promesse che hanno accesso il bufalometro, nuovo sistema di misurazione attivato per chi la sparava più grossa. Una proposta (seria) proveniva da un paio di donne (a scanso di equivoci) candidate, in barba ai luoghi comuni e abbracciando i nuovi costumi.
Sul banco degli imputati la Legge Merlin e i suoi benefici nel caso di una sua (auspicabile) abolizione, il gettito fiscale delle signorine finalmente inquadrate dall’Agenzia delle Entrate, una tutela sanitaria a fornitore e cliente, colpo di spugna a papponi, protettori e feccia assortita che si impone su questo mercato sommerso con inaudita violenza.
Tutto parte da una sentenza della Corte d’Appello di Bari sul tema di prostituzione. E finalmente diventa libera la volontà della donna (ma anche dell’uomo, anzichenò, estendendola ai cosiddetti gigolò) di porsi sul mercato del sesso. Lo ha stabilito la Consulta. E già. La Corte costituzionale a sessant’anni dall’approvazione della legge Merlin ha l’occasione storica di esprimersi sull’incostituzionalità di alcune norme in essa contenuta. Ma cosa è accaduto perché da un processo qualsiasi di sfruttamento della prostituzione si passasse a incensare il mestiere più antico del mondo additandolo come lo svolgimento di una libera professione, al pari di quella di un avvocato o di un cronista qualificati? I giudici della Corte d’Appello (di Bari) hanno in modo a dir poco illuminante sottolineato che la legge Merlin è stata concepita “in un’epoca storica in cui il fenomeno sociale della prostituzione professionale delle escort non era di certo conosciuto e neppure concepibile”.
D’accordo o meno rispetto a questa dichiarazione (le ‘intrattenitrici’ c’erano eccome, magari non c’era il web e la sua virale diffusione promozionale nei siti specializzati), finalmente si guarda al principio della libertà di autodeterminazione sessuale, quindi sul diritto della donna (e dell’uomo) “a disporre della sessualità in termini contrattualistici dell’erogazione della prestazione sessuale contro pagamento di denaro o di altra compatibile utilità”. Evviva, chissà che per una volta i giudici lo siano per la libertà. E non per l’ipocrisia che caratterizza una legge superata. Animo, dunque, cari parlamentari, avete un tema serio su cui dibattere!