Red Land è un film che racconta un fatto vero, la storia di Norma Cossetto, allieva all’università di Padova del latinista Concetto Marchesi, un marxista, membro del PCI, che dopo la guerra avrebbe promosso per lei il riconoscimento della Laurea per la quale stava preparando la tesi.
Proprio per preparare la tesi sull’Istria, caratterizzata dalla terra rossa (da qui il titolo bipolare di Red Land- Rosso istria), era tornata a casa a Visinada d’Istria.
Siamo nel 1943, il fascismo è caduto, la confusione regna sovrana, soprattutto nelle zone di confine, dove il vuoto di potere improvviso favorisce una serie di reazioni revansciste da parte degli slavi che fino allora avevano mal sopportato la politica antislava del fascismo e sulle quali s’innestano, nei confronti di certe persone, da una parte livori e sentimenti di vendetta del tutto privati e dall’altra, più in generale, l’opera dei partigiani di Tito che ben sanno cogliere il momento per sfruttare quei sentimenti con i quali dare corpo e partecipazione alla lotta popolare.
Norma Cossetto era figlia del locale podestà, Giuseppe Cossetto, dirigente del Partito fascista, in quel momento a Trieste, per cui la sua casa e le persone, la moglie e figli che ci abitavano, viene presa di mira. Norma Cossetto viene convocata dal comando partigiano che ha sede nella ex caserma dei carabinieri e al suo rifiuto di aderire al movimento partigiano, come le era stato chiesto, viene arrestata. Alcuni giorni dopo viene trasferita altrove e qui violentata da ben 17 partigiani, che provvederanno anche ad amputarle i seni e poi a gettarla ancora viva, insieme ad altre persone, nella foiba di Villa Surani (quando il 10 dicembre 1943 verranno tirati fuori i corpi delle vittime, in quello di Norma Cossetto sarà trovato, nella vagina, anche un pezzo di legno). Questo comunque il fatto nella sua brutale essenzialità.
Il film lo racconta con la delicatezza che una violenza così estrema è difficile da rendere, avvolgendolo nel prologo di un’anziana istriana, ai nostri giorni, verosimilmente la sorella di Norma Cossetto, interpretata da Geraldine Chaplin, che dà avvio alla memoria – alla storia - nel tempo di quegli orrori, di quand’era bambina. La scena poi si allarga a Norma, innamorata di un coetaneo a Padova, e quindi via via a seguire la vicenda, per la quale solo in parte nel film viene coinvolto il paese (inutile il tentativo, forse troppo intellettuale e generico, del professore Ambrosin interpretato da Franco Nero) fino ad arrivare al nodo cruciale della storia, e cioè al tragico destino di una ragazza innocente, vittima di gente che, approfittando dello stato di guerra, dà sfogo ai propri più bassi istinti bestiali con azioni che niente e nessuno può neppure minimamente giustificare come azione di guerra. Tanto meno se a compierle si ergono rappresentanti di un movimento portatore - a parole, negli slogan, nei confronti del nemico a cui si oppongono - di idee che intendono esprimere più alti valori di civiltà, di umanesimo, di fratellanza tra i popoli, ai quali, con il loro comportamento, si pongono agli antipodi.
E’ una riflessione che va fatta, naturalmente, a prescindere dal film, al quale va il merito di aver avuto il coraggio di affrontare una pagina di storia italiana che, nonostante siano passati 75 anni, si preferisce ancora rimuovere quasi per lesa maestà, visto che a commettere quelle nefandezze sono stati degli antifascisti.
Dico a prescindere dal film, anche perché, sul piano della realizzazione, l’opera presenta diversi limiti. A parte una certa lentezza, il limite maggiore è quello di non aver saputo cogliere la complessità del momento, il senso di smarrimento che coinvolgeva e sconvolgeva la popolazione tutta, mentre si è voluto risolvere esclusivamente con la paura dei soli partigiani titini e del revanscismo slavo quando nella realtà era diffusa anche la paura per le rappresaglie dei tedeschi e dei repubblichini. In questo senso bastava anche una rilettura di Fulvio Tomizza, in particolare de “La quinta stagione” per ritrovare l’angosciante situazione di quel periodo, lo stesso 1943, che lo scrittore istriano ben descrive, quando dopo aver ricordato i 30 uomini gettati nella foiba di Pisino (“Si diceva che metà ne avessero ammazzati e metà li avessero lasciati vivi; avevano poi legato insieme col fildiferro uno morto e uno vivo e li avevano spinti giù”) passa a ricordare l’eccidio di Villanova d’Istria dove i tedeschi fucilarono 22 giovani sotto i 30 anni (“Cadevano l'uno sull'altro come sbalzi di frumento (…) Stefano pensò che per seppellirli sarebbero dovuti andare in tutte le parrocchie dell'Istria, anche nelle più lontane, per prendere tutti i preti fino a metterne insieme ventidue.” )
Nel film invece si dà una lettura manichea, con i cattivi tutti da una parte e i buoni dall’altra, con i tedeschi quasi assenti dalla scena se non per un passaggio dove, tra l’altro, a morire è una “cattiva”, mentre gli ufficiali e soldati italiani vengono rappresentati, poco più, poco meno, come dei cani sciolti dopo essere stati proni ai tedeschi.
E’ però anche vero che non era neppure facile per un regista giovane ed esordiente come l’italoargentino Maximiliano Hernandez Bruno restituire l’epoca, stare attento al complesso contorno storico e sociale, come è riuscito, ad esempio, un Milčo Mančevski che in “Prima della pioggia” ha saputo restituire la complessa, impalpabile atmosfera che regnava alla vigilia della guerra interetnica nella ex Jugoslavia (è vero, però, anche, che il macedone Mančevski, al contrario di Maximiliano Hernandez Bruno, quel periodo l’ha vissuto di persona, così come per tornare a Tomizza, lo stesso scrittore ha vissuto il suo ).
Ma, visto, appunto, il poco o niente che ancora oggi, a settant’anni e passa dalla fine della guerra, circola in Italia riguardo a determinate pagine di storia italiana che non giova a nessuno cancellare, credo che “Red Land” vada preso come un grido nel silenzio. E che, come tale, vada accolto, sempre più sperando, naturalmente, in acuti migliori.
A cura di: Studio Spinapolice & Partners