A cura di: Studio Spinapolice & Partners
Il risparmio è una delle principali forme di accumulo di capitale che le persone adottano per garantirsi una certa stabilità economica nel futuro.
Tuttavia, in alcuni casi, può verificarsi la perdita definitiva del risparmio a causa di eventi imprevisti o di situazioni di frode o truffa. In questi casi, è possibile richiedere un risarcimento del danno permanente, che mira a compensare la perdita subita. In questo articolo, esamineremo le modalità di richiesta del risarcimento del danno permanente in caso di perdita definitiva del risparmio.
Innanzitutto, è importante sottolineare che il risarcimento del danno permanente è regolato dalla normativa vigente in materia di tutela dei consumatori e dei risparmiatori. In particolare, il Codice del Consumo prevede che il consumatore abbia diritto a un risarcimento in caso di danno permanente subito a causa di un prodotto o di un servizio difettoso. Questo diritto si applica anche nel caso di perdita definitiva del risparmio.
Per richiedere il risarcimento del danno permanente, è necessario presentare una denuncia presso le autorità competenti, come ad esempio l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato o l’Autorità di Vigilanza sui Mercati Finanziari. È importante fornire tutte le prove e i documenti necessari per dimostrare la perdita subita e l’entità del danno permanente.
Una volta presentata la denuncia, le autorità competenti avvieranno un’indagine per accertare la veridicità delle accuse e valutare l’entità del danno subito. Durante l’indagine, potrebbe essere richiesto al consumatore di fornire ulteriori prove o testimonianze a supporto della sua richiesta di risarcimento.
Una volta conclusa l’indagine, le autorità competenti emetteranno una decisione in merito al risarcimento del danno permanente. Questa decisione potrebbe prevedere il pagamento di una somma di denaro a titolo di risarcimento o altre forme di compensazione, come ad esempio la restituzione del capitale investito.
È importante sottolineare che il risarcimento del danno permanente può essere richiesto non solo nei confronti di istituti finanziari o società di investimento, ma anche nei confronti di singoli professionisti, come ad esempio consulenti finanziari o sportelli bancari, nel caso in cui la perdita del risparmio sia stata causata da una loro negligenza o da un comportamento scorretto.
È altresì importante sottolineare che il risarcimento del danno permanente può essere richiesto non solo in caso di perdita definitiva del risparmio, ma anche in caso di perdita parziale o temporanea. Tuttavia, è necessario dimostrare che la perdita subita è di natura permanente e che non è possibile recuperare il capitale investito.
In conclusione, il risarcimento del danno permanente in caso di perdita definitiva del risparmio è un diritto riconosciuto dalla normativa vigente. Per richiedere il risarcimento, è necessario presentare una denuncia presso le autorità competenti e fornire tutte le prove e i documenti necessari. Una volta conclusa l’indagine, le autorità emetteranno una decisione in merito al risarcimento del danno permanente.
Possiamo quindi dire che è fondamentale conoscere i propri diritti e agire tempestivamente per ottenere il giusto risarcimento del danno subito.
La tutela dei consumatori e dei risparmiatori è un aspetto di fondamentale importanza per garantire la fiducia nel sistema finanziario e la stabilità economica.
Fonte: Diritto.net - Link
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Arrivano esposti all'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, l'antitrust, affinché indaghi sulle modalità con cui Intesa Sanpaolo ha comunicato il trasferimento di migliaia di clienti a Isybank, banca solo digitale che fa parte dello stesso gruppo, non ha filiali sul territorio e neanche l'internet banking da web: l'operatività viene gestita solo dall'applicazione mobile.
La comunicazione originale di Intesa Sanpaolo risale alla metà di luglio; i correntisti avevano tempo fino a settembre (in alcuni casi fino al 30 settembre) per contattare direttamente Intesa Sanpaolo e provare a impedire il passaggio, nel caso in cui non si fossero riconosciuti nell'identità di cliente "prevalentemente digitale": con cui Intesa Sanpaolo ha identificato le persone che non effettuano abitualmente operazioni in filiale, in pratica, e perciò ritenendole più adatte a un conto interamente digitale.
Queste persone saranno trasferite automaticamente a Isybank nei prossimi mesi, anche se potranno richiedere, in un secondo momento, di tornare in Intesa Sanpaolo, ma con un processo più complesso del trasferimento inverso iniziale.
L'avviso della modifica unilaterale del contratto è stata fornita da Intesa Sanpaolo secondo i canali preferiti dall'utente: significa che chi ha scelto l'email, ha ricevuto la comunicazione via email; chi invece ha preferito gli avvisi in app, ha ricevuto un avvertimento nell'applicazione, in mezzo però a tanti altri avvisi, spesso secondari, che vengono inseriti nello stesso archivio.
"Per quanto Intesa Sanpaolo abbia inviato l'informativa in base alle modalità che il correntista aveva scelto come canale preferenziale, chiediamo all'antitrust se per una comunicazione così rilevante, che non rientra certo tra i consueti avvisi che solitamente si ricevono, fosse sufficiente la modalità scelta dall'istituto bancario e se poteva valere il silenzio assenso, come se fosse una semplice modifica unilaterale del contratto", ha commentato Massimiliano Dona, presidente dell'Unione Nazionale Consumatori, che ha posto l'accento anche "sull'opportunità di trattare in questo modo migliaia di clienti".
Fonte: DDAY - Massimiliano Di Marco - Link
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Gli amministratori degli istituti di credito sono tenuti al risarcimento del danno nei confronti dei medesimi istituti di credito nei casi in cui abbiano concesso credito in violazione dei criteri di ordinaria diligenza dell’accorto banchiere, sia che essi abbiano partecipato attivamente alla conduzione dell’istruttoria delle relative pratiche sia, qualora non vi abbiano partecipato, mancando di approntare le opportune misure finalizzate ad impedire il verificarsi delle irregolarità.
Il principio è stato ribadito dalla recentissima ordinanza n. 26867 pronunciata dalla Corte di Cassazione lo scorso 20 settembre 2023, con la quale è stata definitivamente messa la parola “fine” ad un’estenuante vicenda giudiziaria (risalente addirittura al 2000), che vedeva contrapposti un istituto di credito ed i suoi (ex) amministratori e sindaci, nei confronti dei quali la banca aveva agito per sentire accertare e dichiarare la loro responsabilità per atti di mala gestio, con conseguente condanna al risarcimento del danno subito.
I primi due gradi di giudizio si concludevano con la condanna in solido tra loro dei convenuti a risarcire i danni cagionati alla banca, condanna peraltro confermata in sede di legittimità alla luce dell’ordinanza di rigetto in commento.
In particolare, nell’argomentare l’inammissibilità ed infondatezza di uno dei motivi di ricorso e confermare la condanna dei ricorrenti, la Corte di Cassazione ha ribadito un principio già precedentemente espresso più volte, sul riconoscimento del nesso di causalità tra la condotta degli amministratori ed il danno, nonché sulla successiva quantificazione dello stesso pregiudizio. Secondo tale principio “gli amministratori di un istituto di credito, ove abbiano concesso credito in violazione dei criteri di ordinaria diligenza, sono tenuti al risarcimento del danno attuale arrecato al patrimonio della banca e consistente, in ragione della svalutazione del portafoglio crediti e dei costi di gestione finalizzati al rientro, nella riduzione delle sue capacità gestionali e di investimento, senza che sia, pertanto, necessario attendere l’esito infruttuoso delle azioni di cognizione e di esecuzione volte al recupero dei finanziamenti erogati”.
A tale riguardo, l’ordinanza in commento ha, altresì, precisato che gli amministratori di un istituto bancario, possono essere ritenuti responsabili, pur non avendo condotto personalmente l’istruttoria delle pratiche di erogazione del credito, qualora abbiano “adottato scelte o avallato deliberati in contrasto con le più elementari regole dell’accorto banchiere” nonché laddove abbiano omesso di adottare misure atte ad impedire le irregolarità delle operazioni che venivano perpetrate “nella piena consapevolezza in ordine alle gravi anomalie e ai pesanti deficit organizzativi dell’azienda”.
Infine, appurata la sussistenza del nesso di causalità, la Corte di Cassazione ha sostenuto che la Corte d’Appello avesse correttamente quantificato in via equitativa il danno subito dalla banca nella somma corrispondente al credito complessivamente erogato dalla stessa, senza rispettare i criteri di economicità e prudenzialità che presiedono all’attività di erogazione del credito al pubblico.
Fonte: Ius letter - Link
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Come funziona il contratto di leasing? Chi sopporta il rischio del perimento del bene? A chi spetta l’indennizzo dell’assicurazione e il risarcimento dei danni?
Grazie al contratto di leasing è possibile utilizzare un bene come se fosse proprio, anche se in realtà appartiene a un altro. A differenza della locazione, però, il leasing consente all’utilizzatore di acquistare la cosa al termine del contratto, in luogo della restituzione. Con questo articolo ci occuperemo di un aspetto particolare dell’argomento: vedremo cioè a chi spetta l’indennizzo nel caso di perdita del bene concesso in leasing.
La questione si pone ogni volta che il bene oggetto del leasing sia assicurato, ad esempio contro il furto o il danneggiamento. Facciamo l’esempio dell’auto concessa in leasing: se questa dovesse essere rubata, l’assicurazione chi dovrebbe risarcire? Il concedente/proprietario del bene oppure l’utilizzatore? Scopriamolo.
Il leasing è il contratto con cui un soggetto concede in godimento un suo bene a un’altra persona, la quale in cambio si impegna a pagare un corrispettivo periodico.
Caratteristica fondamentale del leasing è che, al termine del contratto, l’utilizzatore deve compiere una scelta:
Classico esempio di leasing è quello che riguarda le auto: chi si avvale di questo contratto potrà guidare l’autovettura in cambio del pagamento di un canone periodico.
Una particolare forma di leasing è quello cosiddetto “finanziario”, caratterizzato dalla partecipazione al contratto di ben tre soggetti:
Solitamente si ricorre a questo schema contrattuale quando occorre un bene molto costoso che l’interessato non è in grado di acquistare, come ad esempio un macchinario industriale.
In ipotesi del genere, il soggetto che ha bisogno della cosa ma non può permettersela si rivolge a una società (spesso si tratta di una banca) che effettua l’acquisto al suo posto per poi concedergli il bene in godimento per un certo periodo di tempo, scaduto il quale l’utilizzatore deciderà se acquistare definitivamente la cosa oppure restituirla, secondo l’ordinario schema del leasing.
Secondo la giurisprudenza prevalente, se il bene oggetto del leasing viene meno (ad esempio, perché distrutto, smarrito o rubato), il contratto si risolve di diritto, nel senso che si realizza una causa di scioglimento del vincolo contrattuale dovuta all’impossibilità dell’oggetto.
Ciò tuttavia non significa che il concedente non possa pretendere il risarcimento dei danni dall’utilizzatore, se questo si è reso responsabile del perimento o del furto della cosa data in leasing; con la conseguenza che, molto spesso, l’utilizzatore dovrà continuare a pagare nonostante non goda più del bene.
Ciò è evidente soprattutto nel leasing finanziario, ove la società acquista appositamente il bene per concederlo all’utilizzatore: in un’evenienza simile è chiaro che, se la cosa dovesse essere andata distrutta o smarrita per colpa di chi ne ha fatto uso, il concedente avrà diritto a essere ripagato dell’investimento fatto originariamente per l’acquisto.
Se, invece, il bene oggetto di leasing è andato perduto per cause non imputabili all’utilizzatore (calamità naturale imprevedibile, rapina a mano armata nonostante la predisposizione di antifurti, ecc.), allora il contratto si risolverà senza che il concedente potrà pretendere alcunché.
È per questa ragione che, sempre più spesso, il bene oggetto di leasing viene assicurato.
Secondo la giurisprudenza, nel caso di furto del veicolo concesso in leasing, il concedente che abbia ottenuto l’indennizzo dall’impresa di assicurazioni deve restituire i canoni percepiti dopo la data del furto, perché il contratto si è nel frattempo risolto.
A chi spetta l’indennizzo nel caso di perdita del bene oggetto di leasing? La risposta è piuttosto semplice: al soggetto che, all’interno della polizza, risulta essere assicurato.
Solitamente si tratta del concedente, cioè del proprietario effettivo del bene, il quale si assicura nel caso in cui l’utilizzatore dovesse distruggere o perdere la cosa che gli è stata concessa in godimento.
Quanto appena detto vale anche nell’ipotesi del leasing auto. Secondo la Cassazione, il credito indennitario proveniente dalla stipula di un contratto d’assicurazione spetta al concedente e non all’utilizzatore del veicolo.
L’assicurazione sul bene non estende automaticamente i propri effetti anche agli altri soggetti (nel caso di specie, l’utilizzatore del bene), a eccezione dell’ipotesi che ciò non sia espressamente previsto dalla polizza.
Sempre secondo la Cassazione, l’obbligo indennitario dell’assicurazione sopravvive all’eventuale risoluzione del contratto di leasing per sopravvenuto perimento del bene.
Ciò significa che, anche qualora il leasing dovesse estinguersi, l’assicurazione resterebbe obbligata a versare l’indennizzo al soggetto assicurato.
Sempre a parere della Suprema Corte, il concedente che riceve l’indennizzo per la distruzione o il furto del bene conserva il diritto a essere risarcito dall’utilizzatore che, colpevolmente, ha causato la perdita della cosa: il diritto indennitario (da esercitare nei confronti dell’assicurazione) è infatti diverso da quello risarcitorio (vantato nei riguardi dell’utilizzatore).
Per la Cassazione, però, quanto ricevuto dall’assicurazione a titolo di indennità va scomputato dalla maggior somma spettante dall’utilizzatore a titolo di risarcimento.
Anche la giurisprudenza di merito è d’accordo. In caso di furto del bene dato in leasing, l’utilizzatore del bene deve pagare al concedente la quota di risarcimento del danno non liquidata dalla compagnia di assicurazione.
Fonte: LA LEGGE PER TUTTI - Autore: Mariano Acquaviva Link
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Come cambia il pignoramento conti correnti, beni e case tra nuovi diritti pignorati e leggi più severe da ora in vigore? Non solo nuovi limiti e divieti ai pignoramenti ma anche nuovi diritti per i pignorati: cambiano sistemi e modalità di pignoramento di conti correnti, soldi case e altri beni che diventano più severe e rigide ma anche più ‘morbide’ al sussistere di determinate condizioni e situazioni. Vediamo quali sono le ultime novità in merito.
Sono diverse le novità relative ai diritti dei pignorati nei casi di procedimenti di espropriazione forzata già avviata. E si tratta di novità che interessano soprattutto i pignoramenti di case e che derivano da recenti sentenze.
La Corte di Cassazione si è espressa, infatti, con una nuova sentenza stabilendo che, se un contratto bancario prevede clausole vessatorie e abusive, il debitore può opporsi al pignoramento immobiliare anche se non ha agito tempestivamente in passato lasciando scadere i termini e facendo diventare il decreto ingiuntivo definitivo.
Per l’attuazione della sentenza della Cassazione, però, è necessario che sussistano le seguenti condizioni:
Se sussistono tutte queste condizioni, il debitore può procedere con l’opposizione al pignoramento immobiliare. Per effetto della nuova sentenza della Cassazione, cambiano le modalità e i tempi di pignoramento delle case e il giudice a cui la banca presenta richiesta di decreto ingiuntivo deve prima chiedere al creditore di presentare il contratto di credito.
Solo dopo, il giudice competente della procedura di pignoramento immobiliare, può rivedere tutto il procedimento e bloccare l’asta giudiziaria se emerge una effettiva violazione delle norme europee che tutelano il consumatore.
Dunque, per decidere se effettivamente una casa può essere all’asta o essere riacquisita dal debitore, il giudice deve valutare prima se il decreto ingiuntivo è stato emesso sulla base di clausole abusive contrarie ai diritti del consumatore.
Anche la Corte di Giustizia europea ha stabilito che se il contratto stipulato tra banca e cliente contiene clausole abusive, il cliente può fare ricorso anche se è già stata avviata la procedura di pignoramento, bloccando anche in tal caso il pignoramento di una casa se già avviato.
Sono clausole contrattuali abusive, secondo le norme europee, quelle che non rispettano fedelmente i principi di buona fede ed equità, come:
Altra nuova sentenza che ‘agevola’ i debitori nei casi di
La sentenza trae origine dalla normativa che permette al Fisco di avviare la procedura speciale di pignoramento prevista dalla legge esattoriale secondo cui l’Agente della riscossione può attuare direttamente il pignoramento, senza rivolgersi al giudice ordinario, ottenendo il pagamento dei crediti vantati con un’espropriazione forzata nei confronti del terzo ma solo entro il termine dei sessanta giorni.
Tuttavia, decorso tale termine, il pignoramento non può più essere disposto dall’Agente della riscossione ma deve avvenire solo tramite Tribunale, per cui i contribuenti possono ottenere il pagamento dei loro crediti, facendo dichiarare inefficaci per intervenuta decadenza, i pignoramenti disposti fuori termine.
Nuove leggi più severe sui pignoramenti si preparano a partire dopo l’approvazione della riforma Cartabia, che è intervenuta sul processo esecutivo che regola la ricerca telematica di beni e crediti da pignorare. Stando a quanto stabilito, infatti, il creditore per eseguire la ricerca dei beni da aggredire deve presentare una formale istanza all'ufficiale giudiziario per individuarli nelle banche dati fiscali e previdenziali.
Il nuovo sistema di pignoramento di conti correnti, case e altri beni tramite incrocio di tutti i dati in possesso delle diverse banche dati nasce da un accordo tra ministro della Giustizia e Agenzia delle Entrate per permette agli ufficiali giudiziari di accesso alle banche dati dell’amministrazione finanziaria per cercare telematicamente i beni da pignorare, sia che si tratti di conti correnti e sia che si tratti di beni materiali, su richiesta di un creditore o per sottoporre il bene a procedura concorsuale su richiesta del curatore.
Secondo quanto stabilito dalla nuova legge, il creditore che vuole aggredire i beni di un debitore deve prima presentare istanza formale all’ufficiale giudiziario che, a sua volta, individua tali beni cercandoli all’interno delle banche dati fiscali e previdenziali.
Ulteriori leggi più severe per pignoramento di conti correnti, case e altri beni riguardano i nuovi limiti al pignoramento di stipendi e conto correnti, che vengono aggiornati ogni anno perchè dipendono dall’importo dell’assegno sociale, che cambia annualmente per effetto della rivalutazione.
L’importo dell’assegno sociale nel 2023 è di 503,27 euro al mese per 13 mensilità. Considerando che, per legge, non si può pignorare il minimo vitale, pari appunto al doppio dell’assegno sociale e non può mai essere inferiore a mille euro, se l’importo dell’assegno sociale è di 503,27 euro, il minimo vitale 2023 è di 1.006,54 euro e il pignoramento dello stipendio può avvenire oltre tale importo.
E’ possibile pignorare lo stipendio secondo i limiti previsti dalla legge sia presso il datore di lavoro e sia sul conto corrente dove viene accreditato. Per quanto riguarda il pignoramento su un conto corrente, le leggi in vigore 2023 prevedono, in base al saldo disponibile sul conto, si può pignorare solo la parte eccedente il triplo dell’assegno sociale, cioè 1.404,30 euro.
Fonte: Business on line di Marianna Quatraro pubblicato il 27/09/2023 Link
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