A cura di: Studio Spinapolice & Partners
Nella sentenza n. 44378 del 22 novembre 2022, la seconda sezione penale della Corte di Cassazione ha ribadito un principio già espresso precedentemente nel 2020 (si veda la sentenza Cassazione n° 26807/2020): la vendita di criptovalute in Italia, presentata come un'opportunità di investimento, costituisce un'attività di offerta al pubblico, soggetta al controllo della Consob per la tutela degli investitori e alle relative norme del Testo Unico della Finanza (TUF).
La sentenza della Cassazione sottolinea come ove la vendita di criptovalute viene promossa come un'effettiva proposta di investimento, debba essere soggetta agli obblighi previsti dagli articoli 91 e successivi del TUF.
Di conseguenza, l'esercizio di tale attività senza le dovute autorizzazioni e requisiti legali costituisce un illecito, e coloro che promuovono o vendono criptovalute, anche tramite mezzi di comunicazione a distanza, sono soggetti al reato di esercizio abusivo di attività finanziaria.
Questo reato è punibile con una pena detentiva che va da uno a otto anni e una multa che varia tra quattromila e diecimila euro (articolo 166, comma 1, lett. c del D.Lgs. 58/1998).
Le caratteristiche delle criptovalute come forma di investimento finanziario sono richiamate dai giudici di legittimità, che fanno riferimento alla sentenza del Tribunale di Verona del 24 gennaio 2017. Secondo tale sentenza, l'acquisto di criptovalute su una piattaforma di scambio (exchange) presenta i tratti distintivi di un investimento finanziario, i quali includono:
Con la presenza di questi tre elementi: “la valuta virtuale deve essere considerata strumento di investimento perché consiste in un prodotto finanziario, per cui deve essere disciplinata con le norme in tema di intermediazione finanziaria (art. 94 e se. TUF)"
La Suprema Corte sottolinea l'importanza della tutela speciale per gli investimenti in criptovalute. Quando le criptovalute non vengono utilizzate per transazioni di beni o servizi, ma vengono acquistate con lo scopo di investimento, devono essere considerate a tutti gli effetti prodotti finanziari soggetti alla normativa di protezione degli investitori e dei mercati.
Questa normativa include gli obblighi relativi all'intermediazione finanziaria, in particolare per quanto riguarda il regime di offerta al pubblico disciplinato dal Testo Unico della Finanza (TUF), negli articoli 94 e seguenti.
Al di là dei dettagli tecnici, giuridici e della già dichiarata equiparazione delle criptovalute ai prodotti finanziari, dalla lettura dell’ordinanza in commento sembra emergere un chiaro orientamento dalla Corte.
Tale orientamento mira a far valutare ai giudici penali di merito l'offerta e la promozione delle criptovalute in Italia secondo le normative contro l'abusivismo finanziario.
In base a questa direzione giuridica, tutti i soggetti anche persone fisiche, sia italiani che stranieri, possono essere perseguibili penalmente se promuovono come investimento le criptovalute in Italia, senza rispettare la normativa a tutela degli investitori e del mercato finanziario italiano, oltre alle leggi contro il riciclaggio di denaro.
Il risparmio è una delle principali forme di accumulo di capitale che le persone adottano per garantirsi una certa stabilità economica nel futuro.
Tuttavia, in alcuni casi, può verificarsi la perdita definitiva del risparmio a causa di eventi imprevisti o di situazioni di frode o truffa. In questi casi, è possibile richiedere un risarcimento del danno permanente, che mira a compensare la perdita subita. In questo articolo, esamineremo le modalità di richiesta del risarcimento del danno permanente in caso di perdita definitiva del risparmio.
Innanzitutto, è importante sottolineare che il risarcimento del danno permanente è regolato dalla normativa vigente in materia di tutela dei consumatori e dei risparmiatori. In particolare, il Codice del Consumo prevede che il consumatore abbia diritto a un risarcimento in caso di danno permanente subito a causa di un prodotto o di un servizio difettoso. Questo diritto si applica anche nel caso di perdita definitiva del risparmio.
Per richiedere il risarcimento del danno permanente, è necessario presentare una denuncia presso le autorità competenti, come ad esempio l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato o l’Autorità di Vigilanza sui Mercati Finanziari. È importante fornire tutte le prove e i documenti necessari per dimostrare la perdita subita e l’entità del danno permanente.
Una volta presentata la denuncia, le autorità competenti avvieranno un’indagine per accertare la veridicità delle accuse e valutare l’entità del danno subito. Durante l’indagine, potrebbe essere richiesto al consumatore di fornire ulteriori prove o testimonianze a supporto della sua richiesta di risarcimento.
Una volta conclusa l’indagine, le autorità competenti emetteranno una decisione in merito al risarcimento del danno permanente. Questa decisione potrebbe prevedere il pagamento di una somma di denaro a titolo di risarcimento o altre forme di compensazione, come ad esempio la restituzione del capitale investito.
È importante sottolineare che il risarcimento del danno permanente può essere richiesto non solo nei confronti di istituti finanziari o società di investimento, ma anche nei confronti di singoli professionisti, come ad esempio consulenti finanziari o sportelli bancari, nel caso in cui la perdita del risparmio sia stata causata da una loro negligenza o da un comportamento scorretto.
È altresì importante sottolineare che il risarcimento del danno permanente può essere richiesto non solo in caso di perdita definitiva del risparmio, ma anche in caso di perdita parziale o temporanea. Tuttavia, è necessario dimostrare che la perdita subita è di natura permanente e che non è possibile recuperare il capitale investito.
In conclusione, il risarcimento del danno permanente in caso di perdita definitiva del risparmio è un diritto riconosciuto dalla normativa vigente. Per richiedere il risarcimento, è necessario presentare una denuncia presso le autorità competenti e fornire tutte le prove e i documenti necessari. Una volta conclusa l’indagine, le autorità emetteranno una decisione in merito al risarcimento del danno permanente.
Possiamo quindi dire che è fondamentale conoscere i propri diritti e agire tempestivamente per ottenere il giusto risarcimento del danno subito.
La tutela dei consumatori e dei risparmiatori è un aspetto di fondamentale importanza per garantire la fiducia nel sistema finanziario e la stabilità economica.
Fonte: Diritto.net - Link
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Arrivano esposti all'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, l'antitrust, affinché indaghi sulle modalità con cui Intesa Sanpaolo ha comunicato il trasferimento di migliaia di clienti a Isybank, banca solo digitale che fa parte dello stesso gruppo, non ha filiali sul territorio e neanche l'internet banking da web: l'operatività viene gestita solo dall'applicazione mobile.
La comunicazione originale di Intesa Sanpaolo risale alla metà di luglio; i correntisti avevano tempo fino a settembre (in alcuni casi fino al 30 settembre) per contattare direttamente Intesa Sanpaolo e provare a impedire il passaggio, nel caso in cui non si fossero riconosciuti nell'identità di cliente "prevalentemente digitale": con cui Intesa Sanpaolo ha identificato le persone che non effettuano abitualmente operazioni in filiale, in pratica, e perciò ritenendole più adatte a un conto interamente digitale.
Queste persone saranno trasferite automaticamente a Isybank nei prossimi mesi, anche se potranno richiedere, in un secondo momento, di tornare in Intesa Sanpaolo, ma con un processo più complesso del trasferimento inverso iniziale.
L'avviso della modifica unilaterale del contratto è stata fornita da Intesa Sanpaolo secondo i canali preferiti dall'utente: significa che chi ha scelto l'email, ha ricevuto la comunicazione via email; chi invece ha preferito gli avvisi in app, ha ricevuto un avvertimento nell'applicazione, in mezzo però a tanti altri avvisi, spesso secondari, che vengono inseriti nello stesso archivio.
"Per quanto Intesa Sanpaolo abbia inviato l'informativa in base alle modalità che il correntista aveva scelto come canale preferenziale, chiediamo all'antitrust se per una comunicazione così rilevante, che non rientra certo tra i consueti avvisi che solitamente si ricevono, fosse sufficiente la modalità scelta dall'istituto bancario e se poteva valere il silenzio assenso, come se fosse una semplice modifica unilaterale del contratto", ha commentato Massimiliano Dona, presidente dell'Unione Nazionale Consumatori, che ha posto l'accento anche "sull'opportunità di trattare in questo modo migliaia di clienti".
Fonte: DDAY - Massimiliano Di Marco - Link
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Gli amministratori degli istituti di credito sono tenuti al risarcimento del danno nei confronti dei medesimi istituti di credito nei casi in cui abbiano concesso credito in violazione dei criteri di ordinaria diligenza dell’accorto banchiere, sia che essi abbiano partecipato attivamente alla conduzione dell’istruttoria delle relative pratiche sia, qualora non vi abbiano partecipato, mancando di approntare le opportune misure finalizzate ad impedire il verificarsi delle irregolarità.
Il principio è stato ribadito dalla recentissima ordinanza n. 26867 pronunciata dalla Corte di Cassazione lo scorso 20 settembre 2023, con la quale è stata definitivamente messa la parola “fine” ad un’estenuante vicenda giudiziaria (risalente addirittura al 2000), che vedeva contrapposti un istituto di credito ed i suoi (ex) amministratori e sindaci, nei confronti dei quali la banca aveva agito per sentire accertare e dichiarare la loro responsabilità per atti di mala gestio, con conseguente condanna al risarcimento del danno subito.
I primi due gradi di giudizio si concludevano con la condanna in solido tra loro dei convenuti a risarcire i danni cagionati alla banca, condanna peraltro confermata in sede di legittimità alla luce dell’ordinanza di rigetto in commento.
In particolare, nell’argomentare l’inammissibilità ed infondatezza di uno dei motivi di ricorso e confermare la condanna dei ricorrenti, la Corte di Cassazione ha ribadito un principio già precedentemente espresso più volte, sul riconoscimento del nesso di causalità tra la condotta degli amministratori ed il danno, nonché sulla successiva quantificazione dello stesso pregiudizio. Secondo tale principio “gli amministratori di un istituto di credito, ove abbiano concesso credito in violazione dei criteri di ordinaria diligenza, sono tenuti al risarcimento del danno attuale arrecato al patrimonio della banca e consistente, in ragione della svalutazione del portafoglio crediti e dei costi di gestione finalizzati al rientro, nella riduzione delle sue capacità gestionali e di investimento, senza che sia, pertanto, necessario attendere l’esito infruttuoso delle azioni di cognizione e di esecuzione volte al recupero dei finanziamenti erogati”.
A tale riguardo, l’ordinanza in commento ha, altresì, precisato che gli amministratori di un istituto bancario, possono essere ritenuti responsabili, pur non avendo condotto personalmente l’istruttoria delle pratiche di erogazione del credito, qualora abbiano “adottato scelte o avallato deliberati in contrasto con le più elementari regole dell’accorto banchiere” nonché laddove abbiano omesso di adottare misure atte ad impedire le irregolarità delle operazioni che venivano perpetrate “nella piena consapevolezza in ordine alle gravi anomalie e ai pesanti deficit organizzativi dell’azienda”.
Infine, appurata la sussistenza del nesso di causalità, la Corte di Cassazione ha sostenuto che la Corte d’Appello avesse correttamente quantificato in via equitativa il danno subito dalla banca nella somma corrispondente al credito complessivamente erogato dalla stessa, senza rispettare i criteri di economicità e prudenzialità che presiedono all’attività di erogazione del credito al pubblico.
Fonte: Ius letter - Link
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Come funziona il contratto di leasing? Chi sopporta il rischio del perimento del bene? A chi spetta l’indennizzo dell’assicurazione e il risarcimento dei danni?
Grazie al contratto di leasing è possibile utilizzare un bene come se fosse proprio, anche se in realtà appartiene a un altro. A differenza della locazione, però, il leasing consente all’utilizzatore di acquistare la cosa al termine del contratto, in luogo della restituzione. Con questo articolo ci occuperemo di un aspetto particolare dell’argomento: vedremo cioè a chi spetta l’indennizzo nel caso di perdita del bene concesso in leasing.
La questione si pone ogni volta che il bene oggetto del leasing sia assicurato, ad esempio contro il furto o il danneggiamento. Facciamo l’esempio dell’auto concessa in leasing: se questa dovesse essere rubata, l’assicurazione chi dovrebbe risarcire? Il concedente/proprietario del bene oppure l’utilizzatore? Scopriamolo.
Il leasing è il contratto con cui un soggetto concede in godimento un suo bene a un’altra persona, la quale in cambio si impegna a pagare un corrispettivo periodico.
Caratteristica fondamentale del leasing è che, al termine del contratto, l’utilizzatore deve compiere una scelta:
Classico esempio di leasing è quello che riguarda le auto: chi si avvale di questo contratto potrà guidare l’autovettura in cambio del pagamento di un canone periodico.
Una particolare forma di leasing è quello cosiddetto “finanziario”, caratterizzato dalla partecipazione al contratto di ben tre soggetti:
Solitamente si ricorre a questo schema contrattuale quando occorre un bene molto costoso che l’interessato non è in grado di acquistare, come ad esempio un macchinario industriale.
In ipotesi del genere, il soggetto che ha bisogno della cosa ma non può permettersela si rivolge a una società (spesso si tratta di una banca) che effettua l’acquisto al suo posto per poi concedergli il bene in godimento per un certo periodo di tempo, scaduto il quale l’utilizzatore deciderà se acquistare definitivamente la cosa oppure restituirla, secondo l’ordinario schema del leasing.
Secondo la giurisprudenza prevalente, se il bene oggetto del leasing viene meno (ad esempio, perché distrutto, smarrito o rubato), il contratto si risolve di diritto, nel senso che si realizza una causa di scioglimento del vincolo contrattuale dovuta all’impossibilità dell’oggetto.
Ciò tuttavia non significa che il concedente non possa pretendere il risarcimento dei danni dall’utilizzatore, se questo si è reso responsabile del perimento o del furto della cosa data in leasing; con la conseguenza che, molto spesso, l’utilizzatore dovrà continuare a pagare nonostante non goda più del bene.
Ciò è evidente soprattutto nel leasing finanziario, ove la società acquista appositamente il bene per concederlo all’utilizzatore: in un’evenienza simile è chiaro che, se la cosa dovesse essere andata distrutta o smarrita per colpa di chi ne ha fatto uso, il concedente avrà diritto a essere ripagato dell’investimento fatto originariamente per l’acquisto.
Se, invece, il bene oggetto di leasing è andato perduto per cause non imputabili all’utilizzatore (calamità naturale imprevedibile, rapina a mano armata nonostante la predisposizione di antifurti, ecc.), allora il contratto si risolverà senza che il concedente potrà pretendere alcunché.
È per questa ragione che, sempre più spesso, il bene oggetto di leasing viene assicurato.
Secondo la giurisprudenza, nel caso di furto del veicolo concesso in leasing, il concedente che abbia ottenuto l’indennizzo dall’impresa di assicurazioni deve restituire i canoni percepiti dopo la data del furto, perché il contratto si è nel frattempo risolto.
A chi spetta l’indennizzo nel caso di perdita del bene oggetto di leasing? La risposta è piuttosto semplice: al soggetto che, all’interno della polizza, risulta essere assicurato.
Solitamente si tratta del concedente, cioè del proprietario effettivo del bene, il quale si assicura nel caso in cui l’utilizzatore dovesse distruggere o perdere la cosa che gli è stata concessa in godimento.
Quanto appena detto vale anche nell’ipotesi del leasing auto. Secondo la Cassazione, il credito indennitario proveniente dalla stipula di un contratto d’assicurazione spetta al concedente e non all’utilizzatore del veicolo.
L’assicurazione sul bene non estende automaticamente i propri effetti anche agli altri soggetti (nel caso di specie, l’utilizzatore del bene), a eccezione dell’ipotesi che ciò non sia espressamente previsto dalla polizza.
Sempre secondo la Cassazione, l’obbligo indennitario dell’assicurazione sopravvive all’eventuale risoluzione del contratto di leasing per sopravvenuto perimento del bene.
Ciò significa che, anche qualora il leasing dovesse estinguersi, l’assicurazione resterebbe obbligata a versare l’indennizzo al soggetto assicurato.
Sempre a parere della Suprema Corte, il concedente che riceve l’indennizzo per la distruzione o il furto del bene conserva il diritto a essere risarcito dall’utilizzatore che, colpevolmente, ha causato la perdita della cosa: il diritto indennitario (da esercitare nei confronti dell’assicurazione) è infatti diverso da quello risarcitorio (vantato nei riguardi dell’utilizzatore).
Per la Cassazione, però, quanto ricevuto dall’assicurazione a titolo di indennità va scomputato dalla maggior somma spettante dall’utilizzatore a titolo di risarcimento.
Anche la giurisprudenza di merito è d’accordo. In caso di furto del bene dato in leasing, l’utilizzatore del bene deve pagare al concedente la quota di risarcimento del danno non liquidata dalla compagnia di assicurazione.
Fonte: LA LEGGE PER TUTTI - Autore: Mariano Acquaviva Link
A cura di: Studio Spinapolice & Partners
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