ANNO XII - &MAGAZINE - 

Natura e avventura sull'Orinoco.

Uno splendido libro di viaggio, il racconto avventuroso di una troupe cinematografica che s’inoltra lungo il corso del secondo più grande e maestoso fiume del Sudamerica, al confine tra Venezuela e Bolivia, per arrivare nel cuore della foresta amazzonica per riprendere scene di vita e costumi delle tribù Yanomami.

E’ questo “Il canto dell’Orinoco” del triestino Leandro Lucchetti, edito da Robin.

E’ chiaramente un racconto autobiografico, anche se, in questo caso, il protagonista io narrante si chiama, con una soluzione per altro molto trasparente, Loris Lamberti, il quale, come lo stesso Leandro Lucchetti è documentarista, regista di film di insuccesso, aiuto regista di western spaghetti e così via, cioè un professionista della macchina da presa, con un passato esistenziale e un passato e presente famigliare che ricalca il nostro autore. Il quale, per altro, conferma qui le grandi doti di narratore già espresse, per quello che chi scrive ha potuto leggere, nel romanzo “Bora scura” che ben inquadra e orchestra le vicende di guerra e dopoguerra sul nostro confine orientale.

Ma là dove, come in “Bora scura” c’era una storia, una trama, qui c’è il diario, seppur non giornalmente datato, di una spedizione. Con Loris ci sono l’operatore Vanio, Lucio, detto Caracas, per avere la pelle ambrata dei Caraqueñi, cioè degli  di Caracas, Marlow, la guida, con Abelino, del posto, e il motorista Marcelo “quello che durante la navigazione regge il timone del fuoribordo del bongo”, come si chiama il tipo di imbarcazione sulla quale si trovano per raggiungere la regione in cui vivono le tribù Yanomami.

Una regione molto tutelata dallo stato del Venezuela, nella quale per entrare servono permessi speciali, ma con Marlow, cugino dell’ufficiale della polizia fluviale che controlla i passaggi, sarà tutto più semplice: un permesso provvisorio in cambio di bottiglie di whisky e di alcune stecche di sigarette non si nega mai agli amici di un parente. Ma il racconto è punteggiato da scene di vita lungo il fiume, in particolare serate brave, tra alcol, droghe, donne seminude che si accompagnano volentieri nell’allegria,  seducenti come tutto nelle foresta che si rivela piena di vita, di piante e animali di ogni genere, alcuni mitici come l’anaconda, altri infidi e pericolosi come i serpenti corallo, altri ancora fastidiosi come gli insetti che s’infiltrano dappertutto.

Le descrizioni di Lucchetti sono superbe, scritte, se così si può dire, attraverso gli occhi del regista, che conosce benissimo l’uso delle parole tanto da riuscire con esse a formare le immagini, sia dei paesaggi che degli ambienti che dei personaggi.

L’abilità descrittiva di Lucchetti permette al lettore davvero di seguire il viaggio lungo l’Orinoco non solo sul piano delle immagini che la prosa trasmette, ma anche attraverso le emozioni che l’autore vive, i sentimenti, i pensieri, nel pulsare del racconto. Fino alla sorpresa finale, quella che trasforma il libro da libro di viaggio, degno di un Chatwin o di un Fermor, in un romanzo: l’invenzione del ritrovamento di una suora scomparsa trent’anni prima nella foresta amazzonica, diventata membro a tutti gli effetti di una tribù Yanomami, con tanto di mariti e figli, non più coperta dalla tonaca ma nuda e, nonostante l’età, 62 anni, la stessa età dell’io narrante, ancora vigorosa e bella, carica di una sensualità che naturalmente anche il lettore percepisce. Ma la sorpresa vera è che la suora è stata compagna di scuola di Loris e la sua prima ragazza, quella che, ancora ragazzi di liceo, l’ha introdotto ai segreti e ai piaceri del sesso.

Lucchetti qui ha pescato nella sua memoria una figura della sua adolescenza, alla quale dà il nome di Erika, per affidarle – sulla falsariga della scoperta di un’altra suora nella foresta amazzonica – un ruolo di guida alle usanze, alle tradizioni, ai segni e ai misteri degli Yanomami. Un ruolo che, nonostante si riveli confuso con i loro ricordi, per altro molto vivi, belli e drammatici e ben delineati, esaltati dalla rivelazione di un orrido segreto, avrebbe potuto correre il rischio di apparire ugualmente un po’ troppo didattico e in contrasto con le esplosioni descrittive ed emozionali della prima, lunga parte. Ruolo al quale Lucchetti, con un escamotage narrativo seppur in parte celatamente anche questo didattico – il tragico omicidio di Erika del proprio figlio imposto dalla tribù – ha saputo trasformare in pathos.

Su questo incontro poi Lucchetti giocherà nel finale quando il protagonista tornerà a Trieste, città dalla quale è partito, porterà alla vecchia madre di Erika, una ex nazista macchiatasi col marito di orrendi delitti, la notizia del suo ritrovamento della figlia facendosi però latore, anche, della sua vendetta.

 

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Miti greci e Eros

Due libri ci conducono verso i miti greci. Il primo è di un inglese, Stephen Fry, attore, regista, autore televisivo e sceneggiatore, scrittore, abituato pertanto a una platea ampia, soprattutto nel linguaggio, anche quando questo si fa scrittura.

Ha scritto “Mythos”, edito da Salani, ed è una rivisitazione dei miti greci, a cominciare dalla nascita del mondo, con quel pericolosissimo Crono, fratello e marito di Gea, che si mangiava i figli che lei partoriva (avendo saputo che uno di essi lo avrebbe ucciso per prendere il suo posto), finché lei non decise di nasconderne uno, l’ultimo, Giove, così come la sua gravidanza e la nascita del bambino che, per non tenere a casa, avrebbe dato da allattare alla prodigiosa capra Amaltea, sull’isola di Creta.

Il secondo libro è di tutta altra pasta, scritto da Matteo Nucci, del quale ben conosciamo la passione per l’antica Grecia della quale è studioso ma anche per lo stile raffinato ed elegante dello scrittore che ci ha dato due romanzi entrambi finalisti al Premio Strega e due saggi narrativi, una coniugazione dalla quale è nato  questo “L’abisso di Eros”, edito da Ponte alle Grazie, attraverso le cui pagine ci trasporta in una Grecia parallela a quella dei miti, cioè la Grecia dell’eros, della seduzione.

I due libri però, pur così diversi, si rivolgono entrambi, se non allo stesso pubblico, perché il primo ha un approccio più popolare e il secondo più letterario, a un pubblico solo diverso come preparazione e gusto per la lettura, uno per quella leggera e l’altro per quella più meditata e riflessiva, ma entrambi assimilati sicuramente nell’identica passione per la Grecia.

Stephen Fray ripercorre, con più scioltezza, le orme de “I miti greci” del suo conterraneo Robert Graves e non poco quelle de “I grandi miti greci” del nostro Luciano De Crescenzo, come quest’ultimo reinventando il linguaggio dei dialoghi in chiave molto attuale (ma c’è da dire che, tra i due, quello di De Crescenzo appare più divertente e fantasioso). Comunque, anche “Mythos” di Fry rappresenta un’ottima introduzione a un mondo, quello degli dei e delle creature che sono il frutto dei loro intrecci con gli altri dei quando non con la natura, sia essa quella umana, sia quella sovrannaturale, sapendo che quello è l’approccio poetico degli antichi ai misteri del creato e alle inevitabili debolezze dell’uomo. In questo senso Fry sa bene trasmetterne il senso, facendo del libro uno strumento di conoscenza che tornerà utile anche per un poco impegnativo ripasso di quanto studiato sui banchi del liceo.

Bisogna dire che anche il libro di Matteo Nucci si può prestare a questo scopo, anzi si presta senz’altro. Solo che lo fa da una prospettiva che è quella molto personale della riflessione dello studioso, che affonda nella materia per trarne lui poesia e trasmetterla, recuperandola da storie che hanno nell’eros e nella seduzione la loro chiave di volta della interpretazione del mondo, nutrendosi sia degli archetipi sia di quanto su quegli archetipi l’arte, la poesia, la musica nei secoli ha creato, per poi da qui distendersi nel racconto lungo un itinerario che conferma la forza immaginifica di quei miti nel tempo. Racconto al quale l’autore imprime la suggestiva orchestrazione della sua scrittura, nutrita di passione e conoscenza. Passione e conoscenza, come rivela lo scrittore al termine del libro, cominciata venticinque anni fa, ripresa nel 2017 per il Festival della Mente di Sarzana e approfondite nei suoi interventi al Festival della Disperazione di Andria.

 

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Giornata della memoria: Olocausto e libertà.

Ogni anno, in occasione delle celebrazioni per la “giornata della memoria” , mi chiedo come sia stato possibile l’olocausto, come sia potuto accadere che qualche milione di “diversi” (ebrei, ma anche disabili, omosessuali, slavi, gitani, portatori di handicap, ecc.) sia divenuto vittima di un genocidio messo a sistema, una delle pagine più orribili e disumane della nostra storia recente.

Tutti gli altri vergognosi stermini di massa che hanno macchiato la storia dell’Umanità sono avvenuti per motivi di strategia politica, nel tentativo di eliminare fisicamente le categorie dell’opposizione a un regime, ad esempio,  o per occupare un territorio.

La tragica unicità del genocidio degli ebrei sta nel fatto di aver pianificato, facendo leva su un diffuso antisemitismo secolare (le cui ragioni non staremo qui ad approfondire), un metodo scientificamente criminale, che non ha precedenti nella storia,  per il trionfo di una presunta razza perfetta, grazie all’annientamento fisico e morale di tutti coloro che a quei canoni di perfezione non rispondono e, pertanto, sono da ritenersi inferiori ed indesiderabili.

L’aspetto, però, sul quale desidero  qui riflettere è la causa della disumanizzazione di massa che ha reso possibile sia la Shoah (che in lingua ebraica significa catastrofe, distruzione), sia altri orrori  sistematici, come le purghe staliniane, le foibe e l’esodo giuliano-dalmata,la distruzione della classe borghese da parte di Mao e Pol Pot, i desaparesidos e le vittime dei regimi sudamericani, e tanti altri  atroci avvenimenti simili della storia del secolo scorso, quello sicuramente più sanguinario, che ha mietuto più vittime in assoluto di tutti i secoli che lo hanno preceduto.

Grazie ad un’agghiacciante strategia del terrore,  che accomuna le varie ideologie moderne e va ben oltre l’enunciazione delle stesse, è stato possibile piegare milioni di persone all’annientamento delle coscienze, alla privazione dei diritti umani e alla morte come fatto di routine. Una spaventosa macchina del male, i cui ingranaggi sono sia le vittime che i carnefici, perché resi incapaci di ragionare individualmente sul bene e sul male.

Danilo Kis, grande scrittore nato nel 1935 nell’allora Regno di Jugoslavia, e il cui padre, ebreo, è morto ad Auschwitz , scrisse una delle riflessioni  più interessanti nonché monito sul nazionalismo, definendolo fratello ideologico del razzismo e della xenofobia come “paranoia collettiva causata dalla perdita di coscienza individuale”, una triste filosofia dei perdenti.

Cosa c’è alla base di tutti questi spaventosi crimini di massa? Cosa ha potuto spingere l’Uomo ad uccidere l’Uomo attraverso un conformismo obbediente a leggi  aberranti, emanate da regimi totalitari, contrarie al senso di giustizia e morale universali?

La privazione della Libertà, l’annichilimento totale della personalità, l’aver rinunciato alla propria coscienza critica, al proprio diritto di essere prima di tutto Individuo,  sull’altare della nuova moderna divinità laica: lo statalismo (declinato in tutte le sue possibili forme),  che ha prodotto la collettivizzazione della responsabilità e, di conseguenza la deresponsabilizzazione individuale.

La memoria, dunque, nel ricordo e nel rispetto per i milioni di vittime, non sia spunto di strumentalizzazioni varie, ma occasione per una  riflessione profonda sull’unica speranza per un futuro migliore: la riscoperta del valore dell’Individuo e dell’unico vero, fondamentale diritto dell’Uomo: la Libertà.

La memoria, infine, perché, come è scritto sul monumento di Dachau “Chi non ricorda il passato è destinato a riviverlo”.

 

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Gli ultimi giorni di Anita Ekberg.

Un romanzo sulla vecchiaia, la malattia e la morte. E’ tutto questo il suggestivo romanzo di Alessandro Moscè “Gli ultimi giorni di Anita Ekberg”, edito da Melville.

Qui l’autore si fa intimo dell’attrice svedese, protagonista di tanti film importanti, ma ricordata principalmente per la famosa scena del capolavoro di Fellini “La dolce vita” dove cammina dentro la Fontana di Trevi a Roma sotto lo sguardo ammaliato e perplesso di Mastroianni, e la racconta con la delicatezza di un innamorato.

Lo fa in terza persona, ma è come se a confidarsi fosse Anita stessa, attraverso una trama nel corso della quale si formano occasioni, incontri,  personaggi veri o inventati che contribuiscono a restituire il personaggio Anita Ekberg, colta nella sua intimità. Alessandro Moscè ha potuto farlo andando a investigare, con lo spirito dell’ammiratore incondizionato, nella vita della donna, nei suoi amori, i mariti (l’alcolizzato Antony Steel, attore fallito invidioso dei successi della moglie, idem il secondo Rilk Van Nutter)  e gli amanti o supposti tali che ha avuto. Uno su tutti: Gianni Agnelli, ma anche – seppur più dubbi gli incontri sessuali – Salvatore Quasimodo. E Fellini, assetato di sesso, Risi… Moscè lo fa lasciando che sia la voce romanzesca della stessa Anita Ekberg a parlarne cogliendo quello che è il tratto più vero, nordico, del carattere dell’attrice, cioè la discrezione, il pudore che la spinge a mantenere i suoi segreti, con l’accorgimento dell’autore a rivelarne quel tanto che basta a suscitare fregole di curiosità nel lettore.

Così come si apre al passato, la Anita Ekberg del romanzo non nasconde i tanti guai che la vecchiaia e la malattia le procurano, il destino che la porterà a finire i suoi giorni in una casa di riposo a Rocca di Papa, un paese dei Castelli Romani, dove poi sarebbe morta l’11 gennaio 2015, a 84 anni.

Brilla, nel contesto della narrazione, un incontro con il giornalista, Adriano Pellegatti, nome e personaggio forse creato dalla penna dall’autore, incontro nel corso del quale – dopo un momento di diffidenza nei suoi confronti – l’attrice si apre, andandoci pure a pranzo, lasciando venire a galla i ricordi del suo glorioso passato, non senza mai dimenticare però il presente, vissuto da Anita più con delusione che tristezza per il proprio decadimento fisico (ormai, dopo una caduta, vive tra stampelle e una sedia a rotelle). La rammarica il fatto che, come attrice, non sia stata presa in considerazione anche da vecchia, offrendole altre parti, di donna anziana, di madre di qualcuno, relegando il suo ruolo solo ed esclusivamente agli anni della sua giovinezza, della sua prorompente bellezza, poi dimenticata, quasi a minimizzare le sue doti di attrice a prescindere.

Ma non è comunque che, pur nella vecchiaia, la sua vita sia tutta grigia. Si ritrova con pochi amici, un prete dedito all’alcol, una vicina di camera con la quale non disdegna le uscite in trattoria, vecchi ammiratori. Bellissimo il ricordo di una prostituta, che si faceva chiamare Eleonora Duse “che poteva fare la cantante, l’attrice. Invece ha calcato le strade”, morta in quella casa di riposo l’anno prima. I giorni passati con lei a leggere i tarocchi e nelle confidenze dell’antico mestiere. Su tutti, racconta l’Anita del romanzo, il ricordo di un ministro che veniva da lei, Eleonora Duse. “Il Ministro amava le donne di bassa corte, come confessò. Niente lussi, niente alta società. Erano state le sgualdrine a insegnargli come si fa l’amore. Voleva ricambiare il favore lodando la disponibilità di una di esse, la più bella”.

Anita ricorda quella donna con un altro pensionato, Mino, che dalla sua stanza gli porta le ciambelle e con il quale trascorre il tempo giocando a carte, a scopa e tresette. Forse, dice Anita, che ha cominciato a tenere un diario, forse lui vorrebbe “involontariamente farle un’offerta. Anche a ottant’anni si sogna l’amore, lo si veste di promesse. I fantasmi della lussuria ricordano Giulietta degli spiriti, la trasparenza del reale, la trasgressione, i freni inibitori. Ma da infermi non rimane che quel quadernone da riempire.” Mino è l’unico uomo che non le ha mai chiesto nulla sulla dolce vita, sui film, sul suo passato glorioso. Anita è una donna come tutte le altre”. Ma non lo è. Il lettore se ne avverte perché il suo tempo, quello della sua gloria, i personaggi che incontra nella normalità della sua vita, hanno fatto la storia di quel tempo, la storia del cinema, della letteratura, del costume.

 

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Un albero persiano di Myriam Madjdi

Chi non ricorda gli straordinari versi di Dante nelle Divina Commedia in cui il suo avo Cacciaguida gli profetizza l’esilio?

Tu lascerai ogne cosa diletta più caramente; e questo è quello strale che l'arco de lo essilio pria saetta. Tu proverai sì come sa di sale lo pane altrui, e come è duro calle lo scendere e 'l salir per l'altrui scale.

Si può dire che non ci siano epoche e luoghi, le cui genti non abbiano conosciuto questa drammatica realtà cantata dall’Alighieri. “Tu lascerai ogne cosa diletta più caramente…” E’ questo il vuoto maggiore che l’esiliato si porta dietro, insieme al ricordo di quanto è stato costretto a lasciare. Non solo le persone, amici, parenti, la propria casa, il lavoro, le tombe dei propri morti, e i luoghi e i colori e gli odori. Tu lascerai anche la propria lingua… 

E’ quello che è capitato a Maryam Madijdi, una scrittrice iraniana, nata nel 1980 a Teheran, i cui genitori comunisti, già oppositori dello Scia di Persia e poi di Khomeini, si trovano a dover andare in esilio a Parigi. Maryam ha solo cinque anni e, arrivata a Parigi, si trova in uno stato di confusione esistenziale. Lì, i bambini della scuola a cui è stata iscritta parlano un’altra lingua invece del persiano, e si trova obbligata, parallelamente, a frequentare il “CLIN”, cioè il “Corso introduttivo per non francofoni”, una classe della scuola elementare riservata agli stranieri appena arrivati in Francia, con l’obiettivo di un più veloce inserimento scolastico.

La sua prima reazione è un ostinato mutismo,  quando vede che i suoi compagni di scuola la prendono in giro per come parla, per come si veste, per cosa mangia.  Un sentimento di inferiorità che le farà prendere una decisione: integrarsi pienamente nel nuovo ambiente. E lo fa contro la volontà del proprio padre che invece pretende che la propria figlia, a casa almeno, continui a parlare il siriano, perché – le dice il padre – queste sono le tue radici. Ma lei, prontamente, gli risponde: “Io non sono un albero”. E “Io non sono un albero” è il significativo titolo del libro, edito in Italia da Bompiani, nel quale Maryam Madijdi racconta la sua esperienza.

Il racconto parte da lontano. Da quando, prima ancora della sua nascita, i genitori si erano distinti durante le proteste nei confronti dello Scia e la madre di Maryam si era trovata addirittura incinta di lei di sette mesi a una manifestazione, non esitando a gettarsi dal secondo piano di una casa per sfuggire a due uomini che la inseguivano con dei bastoni chiodati, rompendosi una gamba. Per fortuna la bambina  sopravvisse L’avvento di Khomeini non porterà il cambiamento, che per un errore di valutazione politica, speravano. Tant’è che il padre, perso posto in banca, si rifugia a Parigi. Un anno dopo sarà raggiunto dalla moglie e dalla figlia, che nel frattempo ha compiuto sei anni.

Maryam si vergogna addirittura della sua condizione di esule, straniata com’è dalle nuove condizioni di vita, dalla casa in cui, lei che viveva in un bel quartiere di Teheran, si trova a vivere in un monolocale di 15 metri quadrati, un buco che puzza di umidità e miseria, priva del bagno, al sesto piano di una senza ascensore, su un pianerottolo sul quale si affacciano altre porte ce n’è una sulla quale è scritto WC, termine che non conosce. “Vorrei starmene zitta quando mi chiedono delle mie origini. Vorrei raccontare altro, qualsiasi altra cosa, inventare, mentire.”

Intanto Maryam cresce, diventa una bella donna, sarà insegnante di francese. Ma in tutti questi anni, sia per i tratti somatici che per un certo accento, le chiedono sempre di dov’è. Non sei francese? E quando una volta, alla stessa domanda, risponde come sempre “Io sono francese” un tizio scoppia a riderle in faccia. “Pensavo che per insegnare il francese bisognasse essere francesi, no?”

Queste continue obiezioni, ma soprattutto la scossa rappresentata dalla morte del padre, la spingono, a un tratto, sì, a diventare un albero, a risentire, forti e profonde, le sue radici, con il rimorso di aver dato tanto dolore al padre. Riprende così a studiare il persiano.

A ventidue anni l’assale la voglia di tornare in Iran, di abbracciare i famigliari rimasti, il fratello del padre, anch’egli con un passato in carcere, la vecchia nonna che l’aveva accudita fino ai 6 anni. Ci va, conosce il nuovo Iran, una società contradditoria in cui, l’islam si manifesta ovunque nella sua veste più integralista, ma dove anche si svolgono feste clandestine nel corso delle quali i giovani si danno all’alcol, le ragazze si vestono all’occidentale, si fuma, si amoreggia apertamente, correndo il rischio di un intervento della polizia, magari accompagnata dalle Fatmeh Commando, donne col velo integrale “che aggrediscono altre donne non sufficientemente coperte dal velo o vestite in modo provocante”. Ciononostante Maryam non vorrebbe più andarsene. Vorrebbe restare lì dove ha le sue radici. Ma è la stessa nonna a convincerla a partire. “La tua educazione ha fatto di te una donna libera, non puoi più vivere qui…”. E lei è costretta a una sorta di secondo esilio. Con la voglia però, una volta tornata a Parigi, di scrivere un libro in cui dire tutto di lei, di questa “storia di un esilio persiano” come recita il sottotitolo di “Io non sono un albero”. Una storia che la liberi dai fantasmi che erano venuti a cercarla. Lo fa seguendo la raccomandazione, ancora una volta, della nonna stessa che le dice: “Rendi loro omaggio. Non li raccontare con falsa modestia e segreto orgoglio, ma dall’interno, Maryam, da dentro. Lascia che il tuo dolore si senta”. E così ha fatto.

Ne è nato un libro nel quale ogni esiliato, ogni profugo, si può riconoscere.

 

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