ANNO XII - &MAGAZINE - 

Assegno di mantenimento o divorzile e compensazione debiti.

E’ possibile compensare eventuali debiti con l’assegno divorzile o di mantenimento? In pratica, è possibile recuperare un proprio credito trattenendolo dal versamento dovuto all’ex coniuge? 

Innanzitutto, l’assegno divorzile va distinto dall’assegno di mantenimento, che spetta (ove stabilito) nella fase di separazione dei coniugi che è una fase ancora transitoria.

Interessante in tal senso la sentenza della Corte di Cassazione n. 11504/2017 (sentenza rivoluzionaria per diversi aspetti, che qui citiamo solo per ciò che strettamente si sta richiamando), che ha sottolineato chiaramente  la distinzione tra i due istituti. Infatti, ha affermato che il criterio di determinazione dell’assegno divorzile non può essere il mantenimento del tenore di vita , come durante la separazione, perché costituirebbe un sostanziale ripristino del rapporto matrimoniale, “in una indebita prospettiva, per così dire, di ultrattività del vincolo matrimoniale”.

Premesso che l’assegno di mantenimento è un diritto indisponibile, nonché imprescrittibile e irrinunciabile, fino a che il beneficiario non passi a nuove nozze o l’obbligato muoia o fallisca, sull’argomento la giurisprudenza negli ultimi anni ha fornito risposte contrastanti.

Alcuni Tribunali e la stessa Cassazione, considerando che l’assegno di mantenimento all’ex moglie non serve a garantirle lo stretto necessario per vivere (ma l’autosufficienza economica e, prima del divorzio, lo stesso tenore di vita che aveva durante il matrimonio), hanno ritenuto compensabile l’assegno di mantenimento con i crediti dell’ex marito.

Quest’anno, però, la stessa Corte Suprema, con ordinanza n. 11689/2018 del 14/05/2018, ha ribaltato i pareri precedenti, ritenendo non compensabile l’assegno di mantenimento, perché avente stessa natura e scopo degli alimenti.

Nessun dubbio sicuramente per quanto riguarda il mantenimento stabilito per i figli. In questo caso, la Cassazione ha chiarito che avendo carattere sostanzialmente “alimentare” non è lecito operare alcuna compensazione.

 

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Responsabilità medica e dovere di informazione.

La recente ordinanza n. 15749/2018 della Corte di Cassazione chiarisce in modo inequivocabile il valore sostanziale dell’informazione al paziente.

Prendendo spunto da un caso di ricorso di eredi di un paziente deceduto, ricorso peraltro respinto per carenza probatoria delle circostanze di fatto, la Suprema Corte esamina approfonditamente i casi in cui l’omessa informazione,

se denunciata e provata, può essere motivo di risarcimento nonostante il rispetto dei protocolli e delle linee guida.

Non è sufficiente, dunque, che un intervento chirurgico o comunque un atto terapeutico  venga eseguito perfettamente dal punto di vista tecnico per esonerare i sanitari dalla responsabilità colposa  rispetto a conseguenze non desiderate,  se il paziente non ha ricevuto chiare informazioni sugli eventi possibili, imprevedibili e negativi e dimostra che, se avesse saputo  tali rischi, non avrebbe accettato di sottoporvisi.

“…il principio per cui l’osservanza delle linee guida e delle buone pratiche costituisce solo elemento di valutazione e non di esclusione della colpa, dovendosi avere riguardo alla peculiare e concreta situazione del paziente al fine di stabilire se la condotta dei sanitari sia stata esente da colpa.”

“Occorre rammentare –si legge ancora nella sentenza- che la violazione, da parte del medico., del dovere di informare il paziente, può causare due diversi tipi di danni: un danno alla salute, sussistente quando sia ragionevole ritenere che il paziente, su cui grava il relativo onere probatorio, se correttamente informato, avrebbe evitato di sottoporsi all’intervento e di subirne le conseguenze invalidanti; un danno da lesione del diritto di autodeterminazione, predicabile se, a causa del deficit informativo, il paziente abbia subito un pregiudizio, patrimoniale oppure non patrimoniale (e, in tal ultimo caso, di apprezzabile gravità), diverso dalla lesione del diritto alla salute”.

Pertanto, la violazione del dovere di informazione al paziente può determinare due diverse tipologie di danno: il danno alla salute e il danno da lesione del diritto all’autodeterminazione.

 

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Good bank o Bad Bank?

 Così l’avvocato Enrico Sirotti Gaudenzi spiega le motivazioni che lo hanno spinto a scrivere il libro “Banche, good bank e bad bank” sempre edito da Primicieri di Padova. 

Cogliamo l’occasione per chiedergli quali, tra i provvedimenti adottati dal Governo, ritiene più critici?

“Sono stato interessato da sempre alle riforme in ambito bancario ed analizzai la direttiva BRRD nel mio primo volume in ambito bancario: “il bail in e la direttiva BRRD”, Primiceri Editore, Padova, 2016. Oltre a questo, occupandomi di tutela del credito, ho seguito da sempre numerose vertenze a tutela di clienti, risparmiatori ed azionisti nei confronti di parecchi istituti di credito.”

“Tutti o quasi tutti! Infatti, nonostante i molteplici provvedimenti adottati, il Governo non è riuscito a risolvere alcuna problematica, come si auspicava: il decreto legge n. 183/2015 (decreto salva-banca) ha sortito i dolorosi effetti con la risoluzione della quattro banche coinvolte dal provvedimento; le riforme sulle banche di credito cooperativo, attuate con la legge n. 49/2016, hanno snaturato le realtà bancarie e creditizie che erano radicate nei vari territori a danno dei piccoli imprenditori che avevano stabilito un rapporto di fiducia tra banca e cliente; la riforma delle banche popolari è stata sottoposta al vaglio della Corte costituzionale per evidenti profili di incostituzionalità; infine, il fondo Atlante, si è dimostrato uno strumento inidoneo ed utilizzabile solo per qualche piccola “bancarella”.

La recente Commissione Banche ha chiarito qualcosa in merito alle responsabilità relative alle varie crisi di diverse banche del nostro Paese?

La Commissione parlamentare d’inchiesta sulle banche, pur non avendo predisposto una relazione unitaria fra tutte le forze politiche, ha sottolineato, quale unico aspetto condiviso, la carenza di vigilanza da parte della Banca d’Italia e della Consob. Anche nel testo della relazione del partito di maggioranza (PD e centristi) si evince che "La Commissione è giunta a ritenere che in tutti i 7 casi di crisi bancarie oggetto di indagine le attività di vigilanza sia sul sistema bancario (Banca d'Italia) che sui mercati finanziari (Consob) si siano rivelate inefficaci ai fini della tutela del risparmio".

Ci può dire quale banca, tra le quattro, ha maggiormente suscitato il Suo interesse?

Direi la Cassa di Risparmio di Ferrara. Nel suo caso, infatti, non è stato preso in considerazione neppure il recente terremoto che ha danneggiato enormemente il territorio e le aziende produttive. Nella vicenda, inoltre, sarebbe emerso che Bankitalia avesse commesso un grave errore relativo al requisito dei minimi regolamentari, risultato carente per 60 milioni di euro. Presumibilmente tale errore sarebbe derivato da una semplice dimenticanza: infatti non sarebbe stato inserito il dato sulla fiscalità differita attiva, che avrebbe innalzato il patrimonio di vigilanza addirittura ad un’eccedenza pari a 27,5 milioni di euro! Viene poi rilevato come, durante il commissariamento, la situazione economica della Carife sia peggiorata, nonostante i commissari abbiano ridotto il perimetro di operatività dell’istituto, riducendo le banche controllate e le filiali. Si ritiene, pertanto, che il commissariamento non abbia sortito alcun effetto positivo: i commissari non hanno trovato alcuna strada utile per fare uscire l’istituto di credito dall’amministrazione straordinaria né, tantomeno, per arginare la crisi. Tutte le crisi che hanno caratterizzato recentemente gli istituti di credito hanno evidenziato una grave carenza della governance sui seguenti aspetti: il prezzo delle azioni, le operazioni baciate e la modalità di concessione delle linee di credito. A tutto questo si è aggiunto un Governo inadeguato nel far fronte a tali criticità ed una presenza, da parte dell’autorità di vigilanza, superficiale ed incostante.

Quali sarebbero secondo Lei le proposte più interessanti per migliorare il sistema creditizio?

Beh, senz’altro la separazione delle attività bancarie commerciali da quelle speculative, al fine, così, di dividere nettamente tutte quelle attività rischiose da quelle tradizionali e, di conseguenza, proteggere maggiormente i risparmiatori. Negli Stati Uniti tale separazione fu introdotta nel 1933 dopo la crisi del sistema bancario ma, successivamente, fu abolita; in seguito vi furono altri provvedimenti normativi che limitavano l’attività speculativa delle banche onde evitare crack finanziari. Anche in Europa è stato preso in esame concretamente questo aspetto ed un gruppo di esperti ha elaborato un rapporto sull’introduzione di riforme che impongano delle specializzazioni: la proposta contiene delle norme che assicurerebbero la separazione tra l’attività bancaria tipica, quella di trading in conto proprio e le altre inerenti alla valutazione dei rischi derivanti dall’attività di trading per conto terzi. La proposta, trovando difficoltà di applicazione in tutti i paesi dell’Unione, è ancora al vaglio della Commissione Europea. Un tema particolarmente importante è, poi, quello delle cosiddette “porte girevoli” che vengono a crearsi tra i vertici delle strutture pubbliche ed i primari ruoli del mondo della finanza. Nel nostro Paese numerosi dirigenti del Tesoro, dopo aver terminato il loro incarico, sono migrati nel mondo della finanza ed hanno ricoperto ruoli di primaria importanza all’interno delle Banche private. Nel rivestire il nuovo incarico nel settore privato questi soggetti si portano con sé tutto il bagaglio di informazioni riservate e sensibili acquisite durante il loro precedente incarico, che possono diventare un vero problema per la sicurezza economica del nostro Paese. 

Quali strade sono percorribili a tutela dei clienti e risparmiatori delle banche?

Gli strumenti sono molteplici e si differenziano gli uni dagli altri per specifiche caratteristiche ed ambito di applicazione. Ricordo che recentemente sono stati ampliati i collegi dell’Arbitrato Bancario e Finanziario e che è nato l’Arbitrato per le Controversie Finanziarie, strumento rivolto ai clienti retail che non hanno alcuna esperienza nel settore dei prodotti d’investimento; ciò è la prova come il contenzioso in ambito bancario e creditizio sia cresciuto negli ultimi anni. Ad ogni modo, prima di iniziare una vertenza giudiziale (che oltre all’ambito civile può interessare – come si è visto nel caso delle quattro banche risolte a novembre del 2015 – anche l’ambito penale) è necessario effettuare preliminarmente un tentativo di conciliazione con uno dei tanti strumenti ADR, tra i quali ricordo la mediazione ex d.lgs. n. 28/2010.

Cosa si aspetta ora dall’attuale Governo?

Giuseppe Conte recentemente ha manifestato la volontà di attivarsi non solo per tutelare gli azionisti azzerati ed i risparmiatori “truffati” dalle diverse realtà creditizie che hanno attraversato momenti di grave criticità ma vorrebbe anche mettere mano alla complessa disciplina che ha recentemente riorganizzato le banche popolari e quelle di credito cooperativo affinchè queste possano meglio soddisfare le richieste provenienti dal territorio recuperando la loro funzione di supporto al tessuto produttivo delle piccole e medio imprese. Le parole di Conte sono ricche di buoni propositi ma la materia è alquanto complessa e, rimettere mano alla disciplina delle banche popolari e delle banche di credito cooperativo dopo che sono state disposte pesanti ed importanti fusioni, creazioni di gruppi e modifiche significative potrebbe comportare ulteriori gravi conseguenze che andrebbero ad interessare, ancora una volta, azionisti e risparmiatori.

 

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Home Banking e truffe, spetta alla banca risarcire il cliente.

E’ a carico dell’Istituto Bancario la responsabilità di verificare la riconducibilità delle operazioni alla volontà  del cliente.

Questo in sintesi il senso della Ordinanza n. 9158 del 12/04/2018, emessa dalla Cassazione Civile, sez. VI, di cui riportiamo un passaggio cruciale:

Questa Corte ha già avuto modo di affermare, pronunciando nei confronti della medesima odierna controricorrente (POSTE ITALIANE SPA n.d.r.), in fattispecie sostanzialmente analoga, che, in tema di responsabilità della banca in caso di operazioni effettuate a mezzo di strumenti elettronici, anche al fine di garantire la fiducia degli utenti nella sicurezza del sistema (il che rappresenta interesse degli stessi operatori), è del tutto ragionevole ricondurre nell'area del rischio professionale del prestatore dei servizi di pagamento, prevedibile ed evitabile con appropriate misure destinate a verificare la riconducibilità delle operazioni alla volontà del cliente, la possibilità di una utilizzazione dei codici di accesso al sistema da parte dei terzi, non attribuibile al dolo del titolare o a comportamenti talmente incauti da non poter essere fronteggiati in anticipo. Ne consegue che, anche prima dell'entrata in vigore del d.lgs. n. 11 del 2010, attuativo della direttiva n. 2007/64/CE relativa ai servizi di pagamento nel mercato interno, la banca, cui è richiesta una diligenza di natura tecnica, da valutarsi con il parametro dell'accorto banchiere, è tenuta a fornire la prova della riconducibilità dell'operazione al cliente (Cass. 3 febbraio 2017, n. 2950).

Ovviamente, in caso di dolo o comportamento incauto e non prevedibile del cliente,  la banca non è tenuta a risarcire il danno.

Per comprendere meglio questa decisione della Cassazione, che ha ribaltato i precedenti giudizi di merito,  è fondamentale ricondurre i servizi di home banking all’esercizio di attività pericolosa (art. 2050 c.c.). Infatti, chi gestisce servizi di pagamento, le banche quindi, dispone dei dati sensibili dei propri clienti. In tal senso, trova applicazione il d.lgs. 196/2003 cioè il Codice in materia di protezione dei dati personali. L’art. 15 e l’art. 31 prevedono da un lato il pagamento del danno dovuto al trattamento dei dati personali e dall’altro dispongono che questi dati siano utilizzati, custoditi e controllati con la massima sicurezza. L’intermediario finanziario, dunque, ha l’obbligo di adottare idonee e preventive misure di sicurezza così da ridurre al minimo i rischi di distruzione, accesso non autorizzato o trattamento non lecito. Ne consegue di fatto una responsabilità aggravata per evitare la quale l’Intermediario deve dimostrare non solo di aver adottato ogni misura possibile  e idonea ad evitare il danno, ma deve anche fornire prova di un’eventuale causa esterna  (sia essa fatto naturale, del terzo o dello stesso danneggiato), incontrollabile da parte dell’esercente il servizio.

Importante ricordare anche che l’onere della prova è in capo all’Istituto bancario (d.lgs. 11/2010) per cui , come recita la disposizione n. 2950/2017 della Corte di Cassazione, la sottrazione dei codici del correntista, attraverso tecniche fraudolente, rientra nell'area del rischio di impresa, destinato ad essere fronteggiato attraverso l'adozione di misure che consentano di verificare, prima di dare corso all'operazione, se essa sia effettivamente attribuibile al cliente.

In conclusione, la Corte di Cassazione conferma che spetta all’intermediario fornire la prova della riconducibilità dell’operazione al proprio cliente e dimostrare di aver adottato tutte le misure di sicurezza possibili e idonee.

 

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Polizze vita o investimenti finanziari?

L’ordinanza n. 10333/2018 della Corte di Cassazione rischia di essere una vera e propria mina pronta ad esplodere per il sistema assicurativo italiano. Le polizze vita, infatti, rappresentano uno dei prodotti di punta del business complessivo delle compagnie assicurative: oltre 100 miliardi di euro annui i premi pagati nel ramo vita, contro i “soli” 30 miliardi annui del ramo danni.

Le polizze vita sono da ritenersi tali solo se garantiscono la restituzione del capitale impiegato, diversamente sono considerati contratti di investimento ordinari.

In sostanza, il confine tra le due tipologie contrattuali è delineato dal cosiddetto “rischio di performance”. In caso di  polizza vita il rischio avente ad oggetto un evento riguardante l’assicurato è assunto dall’assicuratore, mentre nei contratti di investimento il rischio (di performance, appunto) è interamente a carico dell’assicurato.

Sebbene il tema annoso della differenza tra polizze assicurative e contratti di investimento non sia nuovo per la Suprema Corte, questa ultima decisione fa anche un’importante precisazione sui contratti perfezionati attraverso società fiduciarie. In sostanza, se manca o viene a mancare la garanzia di conservazione del capitale e di restituzione dello stesso alla scadenza, il prodotto deve essere considerato e, quindi, trattato come un investimento finanziario. Ne consegue, pertanto, che tale inquadramento implica importanti differenze anche dal punto di vista delle comunicazioni: l’intermediario finanziario è sempre obbligato a fornire, anche tramite la fiduciaria, le informazioni adeguate sulle operazioni, modalità, rischi, ecc., come previsto dal Regolamento Consob n. 11522 del 1998 e comunicazioni successive. Nel caso specifico, la Corte ha accertato il mancato assolvimento degli obblighi informativi e di comportamento rispetto ad una operazione finanziaria non adeguata, con riferimento alla persona fisica  dell’investitore (assicurato) e non alla società fiduciaria.

Poiché, come noto, l’esatta identificazione di polizza assicurativa rispetto a contratto di investimento comporta un diverso trattamento fiscale e successorio, questa pronuncia della Cassazione viene così a ribadire ed attualizzare anche il principio inerente il regime fiscale. Non solo, dal riconoscimento della natura finanziaria della polizza potrebbe anche derivare l’inapplicabilità dell’art. 1923 c.c. (impignorabilità).

Il rischio per le Compagnie di Assicurazione, in carenza della garanzia di conservazione del capitale alla scadenza, che il contratto sia considerato a tutti gli effetti un investimento finanziario potrebbe sostanzialmente bloccare le polizze di ramo III (index e unit lindek) e avere rilevanti conseguenze fiscali. Si pensi alla tassazione sulle plusvalenze (prevista a fine contratto e non annualmente) e alla tasse di successione (da cui le polizze vita sono esentate).

L’ANIA (Associazione Nazionale Imprese Assicuratrici) è prontamente intervenuta con un Comunicato Stampa tranquillizzante del Presidente Maria Bianca Farina:

“La Sentenza della Corte di Cassazione non prende posizione sulla qualificazione dei contratti assicurativi sulla vita, ma si riferisce a un caso specifico, caratterizzato dal ruolo assunto da una società fiduciaria. Il caso oggetto del giudizio riguarda, in particolare, errori di trasparenza e di comportamento relativi a un singolo prodotto, commercializzato nel 2006. …non si rilevano nella pronuncia della Suprema Corte conclusioni che mettano in dubbio la connotazione di prodotto assicurativo con riferimento alle polizze con contenuto finanziario, che peraltro già allora risultavano soggette a precisi obblighi di trasparenza e regole di condotta….da sempre, del resto, le normative italiana ed europea identificano come prodotti assicurativi sulla vita polizze con caratteristiche specifiche, indipendentemente dalla garanzia di restituzione del capitale. Le polizze sulla vita sono contraddistinte da garanzie di tipo finanziario e demografico, cioè legate alla vita dell’assicurato. Pertanto, nessun dubbio può essere espresso sulla natura assicurativa di questi prodotti.”

 

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